venerdì 25 dicembre 2020

L'ACCIARINO di Hans Christian Anderson

 Per la strada maestra veniva marciando un soldato:

Uno, due! Uno, due!

— Aveva sulle spalle il suo bravo zaino e al fianco la spada, perchè era stato alla guerra ed ora se ne tornava a casa sua.

Sulla strada maestra, s'imbattè in una vecchia strega, brutta da far paura, col labbro inferiore che le pendeva giù sino a mezzo il petto.

Disse la strega:

«Buona sera, soldato! Che bella spada tu hai! e che zaino! Sei proprio un vero soldato! E io ti dico che avrai tanto danaro quanto mai ne puoi desiderare. »

«Grazie tante, vecchia strega!» — disse il soldato.

«Vedi quel grosso albero? » — disse la strega, e accennava ad uno di quelli che fiancheggiavano la strada:

«Dentro è tutto vuoto. Se tu sali sino alla vetta, vedrai un buco, per il quale ti puoi calar giù in fondo all'albero. Ti legherò una corda alla cintola per tirarti su quando chiamerai. »

«Bene: e che ci avrei da fare giù, dentro all'albero? » — domandò il soldato.

«Che ci avresti da fare? Toh! Prenderti il danaro! » — rispose la strega.

«Hai da sapere che appena sarai in fondo al tronco, ti troverai in un ampio sotterraneo; ma laggiù, però, è chiaro come di giorno, perchè ci ardono più di cento lampade. Là vedrai tre porte: padrone tu di aprirle, perchè le chiavi son nella toppa. Se vai nella prima stanza, vedrai in mezzo dell'impiantito un grande scrigno: su questo scrigno sta accovacciato un cane con un par d'occhi grandi come scodelle. Ma non te ne devi fare nè in qua nè in là. Ti darò il mio grembiale di rigatino, e tu stendilo per terra; poi, va' diritto al cane, prendilo e posalo sul grembiale; apri lo scrigno, e togline quanto danaro vuoi: è tutto rame sonante. Se però preferisci l'argento, non hai che da andare nella seconda stanza. Là ci sta un cane, che ha un par d'occhi grandi come le mole da molino; ma tu a questo non hai da badare: posalo sopra il mio grembiale, e prenditi quanto danaro vuoi. Che se poi, invece, tu vuoi oro, ne trovi quanto ne puoi portare e molto più; basta tu vada nella terza stanza. Solo che il cane, il quale sta sopra al terzo scrigno, ha certi occhi, che ognuno è grande come un torrione rotondo. Quello, vedi, è un cane!...Ma tu devi fare come se non fosse affar tuo. Posalo sul mio grembiale, e allora non ti farà nulla, e tu potrai prenderti tutto l'oro che vuoi. »

«Eh, non mi dispiace, » — disse il soldato:

«Ma a te, poi, vecchia strega, che dovrò io dare in pagamento? Perchè qualche cosa, m'immagino, tu vorrai anche per te. »

«No, » — disse la strega.

«Per conto mio, non voglio nemmeno un soldo. Mi basta tu mi riporti un vecchio acciarino, che la mia nonna dimenticò laggiù, l'ultima volta che ci andò. »

Disse il soldato:

«Bene. Legami la corda alla vita. »

Disse la strega:

«Eccola; e questo è il mio grembiale di rigatino.»

Allora il soldato s'arrampicò sull'albero, sino su in vetta, e poi si lasciò scivolare giù per il cavo del tronco sino in fondo; ed ecco che si trovò in un vasto sotterraneo, come aveva detto la strega per l'appunto, dove ardevano più di cento lampade.

Apre la prima porta.

Uh, che cagnaccio!

È lì accovacciato, che lo guarda fisso con un par d'occhi grandi come due scodelle.

«Guardate che brava bestiola! » — disse il soldato; e lo posò sul grembiale della strega; prese tante monete di rame quante ne potè far entrare nelle tasche, richiuse lo scrigno, ci rimise sopra il cane, e passò alla seconda stanza.

Ohi, là!

Eccoti quest'altro cane con gli occhi grandi come mole da molino.

«Che c'è bisogno di guardarmi fisso a cotesto modo? » — disse il soldato: «Bada che tu non abbia ad accecare! » E posò il cane sul grembiale della strega.

Quando vide tutto quell'argento ch'era nello scrigno, buttò via in fretta e furia le monete di rame che aveva prese avanti, e riempì d'argento tasche e zaino.

Poi andò nella terza stanza.

Uh! che orrore!

Quel cagnaccio aveva davvero gli occhi come torrioni, e giravano giravano come ruote.

«Buona sera a lei! » — disse il soldato, e fece il saluto con la mano al cheppì, perchè una bestia simile non l'aveva mai veduta davvero.

Quando l'ebbe esaminato un po' più da vicino:

«Ora basta! » — disse; lo sollevò, lo mise a terra ed aperse lo scrigno.

Bontà divina! Che massa d'oro c'era là dentro! Tanto da comprare tutta la città di Copenaghen e tutte le caramelle della pasticcera, e tutti i soldatini di piombo, e le fruste, e i cavalli a dondolo del mondo intero.

Ah, che massa di danaro! E il soldato, via subito tutto l'argento di cui aveva riempite tasche e zaino, e dentro oro, invece!

Oro in ogni tasca, nella giberna, nello zaino, nel cheppì, nelle trombe degli stivali, da per tutto, tanto che non poteva quasi più camminare.

Ora sì, che ne aveva del danaro! Rimise il cane sullo scrigno, richiuse la porta, e poi gridò, affacciandosi al cavo dell'albero:

«Tirami su, ohe! vecchia strega! »  «L'acciarino, ce l'hai? » — domandò la strega.

«Hai ragione! » — disse il soldato:

«M'era proprio uscito di mente. » E andò, e lo prese.

La vecchia lo tirò su, e in un momento egli fu di nuovo sulla strada maestra, con le tasche, gli stivaloni, lo zaino, il cheppì, tutti pieni d'oro.

 «Che vuoi tu fare di questo acciarino?» — domandò il soldato.

«Ciò non ti riguarda, » — rispose la strega: «Il tuo danaro, l'hai avuto: dammi dunque il mio acciarino.»

«Marameo! » — fece il soldato: «O mi dici subito quel che vuoi fare, o cavo la spada e ti taglio la testa!»

«No!» — disse la strega.

E il soldato le tagliò la testa, e la lasciò lì sulla strada.

Mise tutto il danaro nel grembiale di rigatino, ne fece un involto e se lo caricò sulle spalle; si cacciò in tasca l'acciarino, e via difilato in città.

Che magnifica città era quella!

Ed egli andò niente meno che alla primissima locanda, si fece dare le più belle stanze, e ordinò tutti i piatti di cui era più ghiotto; perchè, oramai, era ricco a palate, con tutto quell'oro che aveva. Il facchino della locanda, ch'ebbe a lustrargli gli stivali, li trovò, a dir vero, un po' vecchi e logori per un signore a quel modo; ma egli non aveva ancora avuto tempo per comprarsene di nuovi: il giorno dopo si procurò scarpe e vestiti adatti al suo stato.

Ora, il nostro soldato era dunque divenuto un ricco signore; e la gente gli raccontava di tutte le belle cose che c'erano da vedere nella città, e del Re, e della Principessa sua figliuola, bella come il sole.

«E dove si va per poterla vedere? » — domandò il soldato.

«Vederla non si può, in nessun modo! » — dissero tutti a una voce.

«Abita un grande castello di rame, con tante e tante cinte di muraglie e tante e tante torri: non ci può andare altri che il Re; perchè fu predetto che avrebbe sposato un soldato semplice, ed il Re non può tollerare una cosa simile. »

«Mi piacerebbe di vederla! » — pensò il soldato; ma, naturalmente, non c'era da ottenere permessi.

Intanto, passava allegramente le sue giornate: andava a teatro ogni sera, puntualmente; girava in carrozza per i giardini reali, e dava molto danaro ai poveri; e qui, almeno, faceva bene.

Non aveva mica dimenticato i giorni della sua prima giovinezza, nè quel che voglia dire essere senza un soldo.

Era ricco ora, e aveva bei vestiti, e s'era fatto molti amici, i quali tutti dicevano ch'era un bravo giovanotto e un vero gentiluomo: e ciò al soldato faceva molto piacere.

Siccome, però, danaro ne spendeva ogni giorno e mai ne guadagnava, si trovò ridotto, una bella mattina, a non aver più che due soldi; e così dovette sloggiare dall'elegante quartiere che aveva abitato sino allora, e andar a stare in uno sgabuzzino sotto il tetto; e gli toccò lustrarsi da sè gli stivali, e ogni tanto darvi anche qualche punto con un ago da stuoie.

Gli amici non venivano più a trovarlo, perchè c'era da salir troppe scale.

Una sera, ch'era buio pesto ed egli non aveva nemmeno di che comprarsi un mozzicone di candela, si rammentò a un tratto d'un pezzetto d'esca, il quale doveva essere ancora nella scatola dell'acciarino, da quel giorno che l'aveva portato su dal cavo dell'albero, dove la strega lo aveva mandato.

Cavò fuori esca e acciarino; ma proprio nel momento che, battendo sulla pietra focaia, ne faceva sprizzare la scintilla, eccoti che si spalanca la porta, e gli si presenta quel cane che aveva un par d'occhi grandi come due scodelle, quello ch'egli aveva veduto nel sotterraneo, e gli dice:

«Che mi comanda il mio Padrone? »

«Che affare è questo?» — disse il soldato:

«Ecco un curioso acciarino, d'un genere che non mi dispiace, se battendolo posso avere tutto quello che voglio! — Portami un po' di danaro! » — disse al cane; e il cane, vssst! via come il vento; e vssst! rieccotelo con una grossa borsa tra i denti, tutta piena di danaro.

Il soldato sapeva ora che meraviglioso acciarino fosse quello.

Se batteva un colpo solo, subito veniva il cane che stava sullo scrigno delle monete di rame; se batteva due colpi, veniva quello ch'era a guardia dell'argento; se ne batteva tre,

veniva quello ch'era a guardia dell'oro.

— E allora il soldato tornò nel bel quartierino di prima, tornò ben vestito; e allora tutti i suoi buoni amici lo riconobbero subito, perchè, già, gli volevano un mondo di bene.

Un giorno disse tra sè: «È curiosa che non si possa mai arrivare a vederla, questa Principessa.

Dicono tutti che sia tanto bella…

Ma a che serve, se ha da star sempre rinchiusa nel castello di rame dalle mille torri?

Che non m'abbia a riuscire di vederla una volta?

Dov'è il mio acciarino?

» Battè sulla pietra focaia, e vssst! eccoti il cane con gli occhi grandi come due scodelle.

«Veramente, è quasi mezzanotte, » — disse il soldato: «ma pure mi piacerebbe di vedere la Principessa, non fosse che per un minuto. »

Non aveva finito di dirlo, che il cane, via di corsa! era bell'e fuor dell'uscio; e prima che il soldato se n'avvedesse, era già di ritorno con la Principessa.

Essa gli stava seduta sul dorso e dormiva: non c'era da sbagliarla; si vedeva subito ch'era una vera Principessa, tanto era bella.

Il soldato non potè far a meno di darle un bacio: non si è soldati per nulla.

Ma il cane tornò via di corsa con la Principessa.

La mattina dopo, mentre il Re e la Regina erano a colazione, la Principessa raccontò uno strano sogno, che aveva fatto la notte prima, di un cane e di un soldato, — di un cane ch'era venuto a prenderla, e di un soldato che l'aveva baciata.

«Non ci mancherebbe altro! » — esclamò la Regina.

E fu ordinato ad una vecchia dama di corte di montare la guardia, la notte dopo, presso al letto della Principessa, per vedere se si trattasse veramente d'un sogno, o che altro potesse mai essere.

Il soldato si struggeva dal desiderio di rivedere un'altra volta la Principessa; e così, il cane tornò nella notte, la prese, e via di corsa, più presto che potè.

Ma la vecchia dama si mise le galosce, e corse quanto il cane.

Quando l'ebbe visto entrare in un gran casamento, pensò:

Ora, so io dov'è! » — e con un pezzetto di gesso fece una croce sulla porta; poi andò a casa, e si coricò.

Intanto il cane tornò con la Principessa; ma quando vide che sull'uscio della casa dove abitava il soldato c'era una croce, prese anch'esso un pezzetto di gesso e fece tanto di croci, su tutti gli usci della città.

E fu una bella trovata, perchè così la dama non poteva più riconoscere l'uscio del soldato, se tutti gli usci avevano la loro croce.

La mattina all'alba, eccoti il Re e la Regina, con la vecchia dama di corte e tutti gli ufficiali, venuti a vedere dove fosse stata la Principessa.

«Ci siamo! » — disse il Re, quando vide il primo uscio con la croce di gesso.

«No, caro marito; è qui! » — disse la Regina, additando un altr'uscio, dove c'era pure una croce.

«Ma ce n'è una anche lì! E un'altra lì! » — gridarono tutti, perchè, da qualunque parte si volgessero, tutti gli usci avevano la loro croce.

E così videro ch'era inutile continuare le ricerche, perchè non sarebbero approdate a nulla.

La Regina, però, era una donna molto accorta, una donna fuor del comune, la quale sapeva fare qualche cosa di più che andare attorno in carrozza.

Prese le sue forbicione d'oro, tagliò un bel pezzetto di broccato, ne fece un bel sacchettino, lo riempì di fior di farina fine fine, e lo appese sulla schiena della Principessa; e poi, nel fondo del sacchetto, fece un forellino, così che la farina si avesse a spargere per tutto dove la Principessa passava.

La notte, il cane tornò, prese la Principessa, e via dal soldato, il quale le voleva oramai molto bene, ed era molto dispiacente di non essere principe e di non poterla sposare.

Il cane non si avvide della farina, che s'era sparsa per tutta la strada, dal castello sin sotto alla finestra del soldato, dove aveva dato la scalata al muro, sempre reggendo la Principessa sul dorso.

E così, al mattino, il Re e la Regina vennero a risapere dove la loro figliuola fosse stata; e il soldato fu preso e messo in prigione.

E in prigione gli toccò stare.

Ah, che buio e che noia là dentro!

E, per giunta, sentirsi dire:

«Domani sarai impiccato! » C'era poco da stare allegri, davvero; e pensare che aveva lasciato l'acciarino alla locanda!

La mattina, dall'inferriata della prigione, scorgeva già la gente che s'affrettava fuor di porta, per vederlo impiccare; e sentiva le trombe, e lo scalpiccìo dei soldati che sfilavano.

Tutti correvano: anzi, un garzone di calzolaio, ch'era tra la folla, col suo grembiale di cuoio e certe ciabatte sgangherate, correva tanto, che una delle ciabatte gli sgusciò via e andò a battere proprio contro il muro, dietro al quale stava il nostro soldato, affacciato all'inferriata.

«Ohi là, ragazzo mio! Che c'è bisogno di scalmanarsi a cotesto modo? » — gli gridò il soldato:

«Tanto senza di me non incominciano! Ma se vuoi fare una corsa sino al mio alloggio, a prendermi il mio acciarino, ti darò' quattro soldi. Devi adoperare le gambe della domenica, però! »

Al garzone del calzolaio, quattro soldi facevano molto comodo; per ciò andò via di carriera, e in quattro e quattr'otto tornò con l'acciarino.

— E allora… e allora, state a sentire quel che avvenne.

Fuori della città, era rizzata una grande forca; e intorno ci stavano i soldati e molte migliaia di spettatori; e il Re e la Regina erano seduti su di un ricchissimo trono, rimpetto ai Giudici e al Consiglio della Corona.

Il soldato era già sul palco; ma quando stavano per mettergli la corda al collo, domandò di parlare: ad un povero condannato prima del supplizio era sempre concesso di esprimere un ultimo innocente desiderio, ed egli disse che si struggeva di fumare una pipa di tabacco, e sperava gli fosse accordato, poi ch'era l'ultima fumatina, che dava in questo mondo.

Il Re non seppe negargli questa piccola grazia; e allora il soldato cavò l'acciarino e battè la pietra una, due, tre volte... Che è, che non è, eccoti a un tratto tutti e tre i cani, quello con gli occhi come scodelle, quello con gli occhi come mole da molino e quello con gli occhi come torrioni.

«Aiutatemi un po' ora, che non m'impicchino! » — disse il soldato.

I cani non se lo fecero dir due volte: si avventarono ai Giudici ed ai Consiglieri della Corona, e chi afferrando per uno stinco, chi per una spalla, e chi per il naso, li buttarono tutti a gambe all'aria, e ne fecero un massacro.

«Non voglio! » — diceva il Re; ma il cagnaccio più grande prese lui e la Regina e li scaraventò dietro agli altri.

Allora poi, anche le guardie ebbero paura, e tutto il popolo si diede a gridare: «Soldatino, soldatino caro, sii tu nostro Re e marito della nostra bella Reginotta! »

Misero il soldato nella carrozza del Re, e i tre cani andavano innanzi come staffette e gridavano:

Evviva!, i ragazzi fischiavano, ponendosi due dita in bocca, e i soldati presentavano le armi.

La Principessa uscì dal suo castello di rame e divenne Regina; le feste nuziali durarono una settimana intera, e i tre cani, seduti a tavola con gli altri, spalancavano tanto d'occhi, ancora più del solito, a tutto quel che vedevano.


Christian Anderson è deceduto a Copenhagen il 4 agosto 1875 pertanto il teso è privo di diritti d’autore

 Curatrice del testo Silvia Masaracchio


IL GIUDICE ED I PESCATORI di Lorenzo Pignotti


Ci narrano i Poeti.
Che allor quando mancò l’età dell’oro,
Astrea fuggi dalle mortali soglie,
Ma nel fuggir le caddero le spoglie :
E si dice, che sieno
Quelle vesti formali,
Che adornano i Legali,
Che nelle Ruote, ovver nei Parlamenti
Prendono il nome illustre
D’Auditori, Avvocati, o Presidenti.
Di tal spoglie pertanto un dì vestito
Con fronte maestosa,
Accigliata e rugosa,
Ove pinti pareano i gravi e seri
Affollati pensieri,
Stavasi un uomo, che al portamento, agli atti
Ed all’aria importante,
Che si vedea sulla sua faccia espressa,
E’ rassembrava la Giustizia istessa.
Da lui non molto lungi
Due laceri, meschini Pescatori,
Con rustici clamori
Facean aspra contesa,
Per decider fra loro, a chi spettasse
Un’ostrica che insiem aveano presa:
Dell’infelice pesca di quel giorno
Era l’unico frutto:
Batteano il dente asciutto
Famelici ambedue, l’ostrica aperta
Era sul suol, che col soave odore
Dell’acidetto umore,
Onde gli scabri gusci eran stillanti,
Accresceva la fame a’ litiganti.
Stavan già per decider l’aspra lite
All’uso de' Sovrani,
Col venire alle mani;
Giacché pare una regola
Da’ sommi Metafisici e Politici
Fissata, e posta ornai fuor di questione,
Cioè : che chi ha più forza, ha più ragione.
Dell’infelice pesca di quel giorno
Era l’unico frutto:
Batteano il dente asciutto
Famelici ambedue, l’ostrica aperta
Era sul suol, che col soave odore
Dell’acidetto umore,
Onde gli scabri gusci eran stillanti,
Accresceva la fame a’ litiganti.
Or mentre i nostri duoi
Bravi e affamati eroi
Per più degna cagion ch'Ettore e Achille,
E ben mill'altri e mille
E della vecchia e della nuova istoria
Illustri pazzi indegni di memoria,
Col pugno stretto ed alto
Correvano all'assalto:
Comparve ad essi avante
Del nostro grave Giudice il sembiante.
Subito per rispetto
Il piè trassero indietro i combattenti,
E piegaron la fronte riverenti.
Parve dal Ciel quest’uomo a lor mandato,
E convennero entrambi,
Ch’ei tosto decidesse ogni lor piato.
Egli accettò l'offerta, e volle prima,
Perchè in regola ogni atto camminasse.
Che l’ostrica in sua man si sequestrasse.
A lui ciascuno espone
Tosto la sua ragione.
Io la vidi primiero,
Un di loro dicea;
E l’altro rispondea:
A porvi su le mani il primo io fui,
E d’una cosa il possesso si prende.
Quando la mano sopra vi si stende.
Il Giudice frattanto
Le ragioni ascoltava,
E l’ostrica odorava ;
E quando ebbero detto,
Con grave e serio aspetto
I due gusci divise,
Ed uno in mano a ciaschedun ne mise;
La polpa per sua sportula o mercede
A se stesso doversi ei giudicò,
E in faccia agli affamati litiganti
In bocca legalmente la cacciò;
Ed esclamando che adoprar conviene
Colla gente dabbene
Giustizia e carità,
La masticò con molta gravità.

«Voi che cadeste un giorno fra gli artigli
»Di quelli che d'Astrea si chiaman figli,
»Dite voi per lor gloria,
»S’ell’è favola questa, o vera istoria.»


Tratto da
Poesie di Lorenzo Pignotti
Aretino

Primo Tomo

FIRENZE

PRESSO LEONARDO MARCHINI

MDCCCXXIII

 

Lorenzo Pignotti muore nell'Agosto del 1812 pertanto il testo è privo di diritto d’autore.


martedì 8 settembre 2020

STORIA DI UNA MAMMA di Hans Christian Anderson

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Una mamma vegliava il suo bambino, angosciata dallo spavento che le potesse morire. Egli era lì pallido pallido, i piccoli occhi già chiusi, il respiro lieve come un soffio: solo ogni tanto ansava un po' più forte, che pareva sospirasse; e allora la mamma guardava la sua creatura con la espressione di un dolore ancora più intenso.

Fu picchiato all'uscio, ed entrò un povero vecchio, tutto ravvolto in una specie di grande coperta da cavalli, di quelle che tengono ben caldo; e ce n'era bisogno, col freddo che faceva. Fuori, tutto era coperto di neve e di ghiaccio, e tirava un vento gelato che tagliava il viso.

Poi che il vecchio tremava di freddo, ed il bambino per l'appunto in quel momento s'era addormentato, la madre mise a riscaldare sulla stufa un po' di birra in un pentolino, per darla al pover'uomo. Questi s'era seduto e cullava il bambino; e la madre sedette accanto a lui, guardando il suo malatino, che tirava certi respiri profondi, e prendendogli una manina.

«Non credi anche tu, di', che il mio bambino mi sarà lasciato?» — domandò essa. «Il Signore non può volermelo togliere!»

Il vecchio, il quale era proprio la Morte, scosse il capo, in un certo modo, che poteva significare tanto no quanto sì. La madre chinò gli occhi, e le lacrime le scendevano giù per le gote. Il capo le si fece pesante, — eran tre giorni e tre notti che non chiudeva occhio, — e si addormentò... oh, ma un minuto soltanto!... Si scosse, tremando di freddo, e balzò in piedi. «Che è stato?» — esclamò: e si guardò attorno, da tutte le parti. Ma l'uomo non c'era più, e non c'era più il suo bambino: l'uomo lo aveva portato via.

Il vecchio orologio, nell'angolo, brontolava e strideva: il grosso peso di piombo n'era sceso giù sin quasi a terra, e bum! ecco che il peso cadde, ed anche l'orologio si fermò.

La povera mamma uscì di casa correndo e si diede a chiamare il suo bambino.

Fuori, in mezzo alla neve, stava seduta una donna, con una lunga veste nera; e la donna disse: «La Morte è stata nella tua casa: l'ho veduta io fuggire col tuo bambino; il vecchio corre più del vento e mai non riporta quello che ha tolto!»

«Dimmi soltanto che strada ha preso!» — supplicò la madre: «Dimmi la strada, e lo saprò trovare.»

«Io la so,» — disse la donna vestita di nero, — «ma se vuoi che te la dica, devi prima cantarmi tutte le canzoni che hai cantate per addormentare il tuo bambino. Mi piacciono; le ho già sentite, perchè sono la Notte io, ed ho veduto le tue lacrime, mentre le cantavi.»

«Te le canterò tutte tutte!» — rispose la madre: «Ma non mi trattenere; lascia che lo raggiunga, lascia prima che trovi il mio bambino.»

Ma la Notte rimase muta ed immobile; e la madre si torse le mani, cantò e pianse: le canzoni erano molte, ma molte più ancora erano le lacrime; e alla fine la Notte parlò:

«Tieniti a destra, e passa quel nero bosco di abeti: là ho veduto rivolgersi la Morte col tuo bambino.»

Nel più fitto del bosco, la strada formava un crocicchio, sì che la madre non sapeva da che parte prendere. Là in mezzo c'era un cespuglio di pruni, che non portava foglie nè gemme, perchè s'era nel cuor dell'inverno, e dai rami pendevano i ghiacciuoli.

«Non hai veduto passare la Morte col mio caro piccolino?»

«Sì,» — disse il cespuglio: «ma non ti dirò che strada ha preso, se prima tu non mi riscaldi sul tuo cuore; ho tanto freddo, che mi sento proprio ghiacciare.»

Ed ella si strinse al cuore il cespuglio di spini, forte forte, perchè si riscaldasse bene; e le spine le entravano nelle carni, così che il sangue ne spicciava in grosse goccie; ma il cespuglio mise le foglioline verdi, e le gemme si apersero nella fredda notte d'inverno, tanto calore ha il cuore d'una mamma addolorata; ed il cespuglio le insegnò la strada che doveva prendere.

Così, giunse in riva d'un grande lago, dove non si vedeva barca nè navicella per passare. Il ghiaccio alla superficie non era ancora grosso abbastanza per reggerla, nè l'acqua abbastanza sgombra e bassa per potersi arrischiare a traversarla a guado; e pure doveva passarla, per andare dal suo bambino; e allora ella si accinse a bere il lago... Questo, nessun uomo al mondo l'avrebbe potuto fare; ma la povera mamma addolorata confidò che forse accadrebbe un miracolo.

«No, così non facciamo niente!» — disse il lago «Vediamo piuttosto, se non ci potessimo combinare. Mi piace tanto far raccolta di perle, e i tuoi occhi sono le più lucenti ch'io abbia mai vedute. Se vuoi cedermele in pianto e lasciarle cadere dentro di me, ti porterò all'altra riva, dov'è la grande serra in cui la Morte trapianta i suoi fiori ed i suoi alberi, ognuno dei quali è una vita umana.»

«Oh, che cosa non ti darei, per andare dov'è il mio bambino?» — disse la madre piangendo; e pianse ancora più forte, sin che gli occhi le caddero in fondo al lago e divennero due perle preziose. Allora, il lago la sollevò come a volo, e con un solo slancio la depose sull'altra riva, sulla quale sorgeva un immenso edificio meraviglioso, lungo miglia e miglia.

Non si sarebbe potuto dire se fosse una montagna con boschi e caverne, o se fosse opera dell'uomo: la povera mamma però non poteva vederlo, perchè, a forza di piangere, non aveva più occhi.

«Dove potrò ora trovare la Morte, che m'ha portato via il mio bambino?» — sospirava.

«Qui non è arrivata ancora,» — disse la Vecchia delle Tombe, alla quale era affidata la custodia della grande serra della Morte. «Come hai potuto giungere sin qui, e chi ti ha aiutata?»

«Il Signore mi ha aiutata!» rispos'ella: «Egli è misericordioso, ed anche tu mi userai misericordia. Dove posso trovare il mio bambino?»

«Brava! io non lo conosco,» — ribattè la donna, «e tu non ci vedi!... Molti fiori e molte piante sono appassite questa notte: la Morte verrà tra poco a trapiantarle. Sai bene che ogni uomo, a seconda del proprio stato, ha il suo albero od il suo fiore di vita; in apparenza sono come tutti gli altri vegetali, ma dentro ci batte un cuore. Anche i cuori dei bambini battono. Tendi bene l'orecchio al battito dei cuori e forse potrai riconoscere il tuo bambino. Ma che cosa mi darai, se ti dico quello che devi far dopo?»

«Io non ho altro da poter dare!» — disse la povera mamma: «Ma andrò per te sino in capo al mondo.»

«In capo al mondo, io non ci ho niente che fare,» — rispose la vecchia: «ma tu puoi darmi piuttosto i tuoi lunghi capelli neri: devi sapere anche tu che son belli! Mi piacciono, e in cambio ti darò i miei capelli bianchi: è pur sempre qualche cosa!»

Se non vuoi che questo!...» — diss'ella: «Te li do con gioia!» E le diede i suoi bei capelli neri, ed ebbe in cambio quelli bianchi come la neve della vecchia.

Poi andarono nella grande serra della Morte, ove crescevano, stranamente mescolati, alberi e fiori: Sotto certi ripari di vetro, c'erano delicati giacinti, e più là grandi piante di peonie, forti come alberi; c'erano piante acquatiche, alcune fresche, altre mezzo appassite, e le idre ci si annidavano sopra, e i granchi neri si arrampicavano sugli steli. C'erano magnifiche palme, quercie e platani, e poi, più in là, prezzemolo e timo fiorito; ogni albero, ogni pianta portava un nome speciale: ognuna era una vita umana. Le persone vivevano ancora, chi nella Cina, chi in Groenlandia, sparse su tutti i punti della terra. C'erano grossi alberi in vasi troppo piccini, così che apparivano rattrappiti ed il vaso era lì lì per iscoppiare; di quando in quando, s'incontrava anche qualche piccolo fiore delicato, in una zolla di terra grassa, coperta tutto all'ingiro di musco, teneramente coltivato. — La povera mamma si chinava sulle piantine più basse ascoltando il battito umano di tutti quei cuori, e, tra mezzo a milioni e milioni, riconobbe il suo bambino.

«Eccolo!» — gridò, — e stese la mano ad un piccolo fiore di croco azzurro, tutto avvizzito e chinato a terra da un lato.

«Non toccare il fiore!» — ammonì la vecchia: «Mettiti là accanto, invece, e quando arriva la Morte, che dovrebb'esser qui da un momento all'altro, — io lo so, — non lasciarle strappare la pianta. Minacciala, in caso, di fare altrettanto con le altre piante; così incomincerà ad impensierirsi. Di tutte deve render conto dinanzi al Signore, e nessuna pianta può esser divelta senza il Suo consenso.»

Tutto ad un tratto, si sentì nella sala una folata di aria gelida, e la povera mamma cieca comprese ch'era la Morte, che si avvicinava.

«Come hai potuto trovar la strada sino a qui?» — domandò l'Uomo della Morte. «Come hai potuto far più presto di me?»

«Sono una mamma!» diss'ella.

La Morte stese la lunga mano per istrappare il tenero fiorellino; ma la mamma ci teneva sopra ben salde le sue mani, per ripararlo, accosto accosto, pur tremando tutta dalla paura di toccare una delle foglioline. Allora, la Morte le soffiò sulle mani; ella sentì che quel fiato era più freddo del più gelido vento, e le mani le ricaddero senza forza.

«Tu, non hai potenza contro di me!» — disse la Morte.

«Ma il Signore può!» — rispose ella.

«Io non faccio se non quello che Egli vuole!» — disse l'Uomo della Morte: «Io sono il suo giardiniere: prendo tutte le sue piante ed i suoi fiori e li trapianto nel grande giardino del Paradiso, nel paese sconosciuto; come poi crescano, e come sia lassù, non te lo posso dire.»

«Ridammi il mio bambino!» — disse la madre; e pianse e pregò. Poi, a un tratto, prese con ciascuna mano due bellissimi fiori, che le stavano accanto, e gridò alla Morte: «Bada che ti strappo tutti i tuoi fiori, perchè sono disperata!»

«Non li toccare!» — urlò la Morte. «Tu dici che sei infelice, e vorresti fare che un'altra mamma fosse altrettanto infelice di te?»

«Un'altra mamma!» — mormorò la povera donna: e lasciò subito i fiori.

«Eccoti i tuoi occhi;» — disse la Morte: «Li ho pescati nel lago: luccicavano tanto!... Non sapevo che fossero tuoi. Riprendili, (ora essi vedono più chiaro di prima), e guarda giù in fondo a questo pozzo. Ti dirò i nomi dei due fiori, che tu volevi strappare, e tu ne vedrai tutto l'avvenire, tutta la vita umana; e vedrai quello che volevi turbare od annientare.»

Essa guardò nel pozzo, e fu tutta beata di vedere come l'uno fosse per il mondo una benedizione, e quanta felicità e quanto bene spandesse intorno a sè. Vide il destino dell'altro, ed era tutto guai e miserie, sventura e patimento.

«Entrambi sono secondo la volontà di Dio!» — disse la Morte.

«Quale è il fiore della sventura, quale il fiore della felicità?» — domandò essa.

«Ah, non te lo dico;» — rispose la Morte: «Ma questo solo saprai da me: che uno dei due fiori era quello del tuo bambino, che uno era il destino del tuo figliuolo, e che tu hai veduto il suo avvenire.»

Allora, la madre fu presa dal terrore e gridò: «Quale dei due era il destino del mio bambino? Dimmelo! Risparmia l'innocente, risparmia il mio bambino da ogni sventura! Piuttosto, portatelo via! Portalo piuttosto nel Regno di Dio! Dimentica le mie lacrime, dimentica tutto quello che ho detto, tutto quello che ho fatto!»

«Non ti capisco!» — disse la Morte: «Vuoi tu riavere il tuo bambino, o debbo portarlo via con me, dove tu non sai?»

La madre si torse le mani, cadde in ginocchio e pregò il Signore: «Non mi ascoltare, se io prego contro la volontà Tua, che è la migliore! Non mi ascoltare!»

E chinò la testa sul petto.

La Morte portò via il suo bambino, nel Paese sconosciuto.


 

mercoledì 5 agosto 2020

LA MORTE E IL MEDICO di Lorenzo Pignotti

Stanca la Morte un giorno

Dalle gravi fatiche quotidiane,

E dalle stragi umane,

Qualche sollievo diedesi a cercare,

E pensò di creare

Fra li suoi più capaci

Ed abili seguaci

Il suo primo ministro,

E degli affari sui

E la somma e il poter fidare a lui.

Onde avendo intimato

Un consiglio di stato,

Fece saper, che ognuno

Che a posto sì onorifico aspirasse,

A raccontar venisse i merti suoi,

Ch'ella udirebbe, e sceglierebbe poi.

Ecco che in folto stuolo

Tutti i morbi più rei vengono a volo.

Già dall'impure fauci

Soffio spirando venenoso e rio,

Di macchie sparsa livide e funeste

S’incammina la Peste,

E la sieguono intorno dappertutto

Solitudine, orror, ruine e lutto.

 

Smunta, scarna, mostrando

Le nude ossa, e la pelle irrigidita,

Vien la Tisi, ed addita

I merti suoi nell'infinita schiera

Delle persone troppo delicate,

Che pria del tempo lor giunsero a sera

 

Non finirò, se tutti ad uno ad uno

Gli orridi membri del concilio orrendo

Di descrivere intendo.

Già si sedeano in cerchio.

Ed attendean con palpitante core

La gran decision. Morte frattanto

Gli occhi girava intorno

All’orrido soggiorno.

Dove vuota rimasa era una sede,

Come chi cerca alcuno e non lo vede ;

Ed ansiosa i lumi or da una parte,

Or dall’altra volgea,

Nè fra' suoi fidi il Medico vedea.

Alzando allora la tremenda voce

Così parlar s’udì. Veggo ben io

Che il merito più grande è il più modesto;

Ma non sarà per questo

Defraudalo del premio: io ben conosco

Quanto al Medico deggia ; egli mi serve

A spopolar la terra

Più dell’istessa peste, e della guerra.

Alzossi allora, e il Medico fu tosto

Della Morte ministro principale

Dichiarato con fremito confuso,

Che per quell'antro cupo alto rimbomba

« Al rauco suon della tartarea tromba.»

 

O voi che professate

Quest’arte salutar, non v'adirate:

Parla de' tempi, e de’ medici antichi

La favoletta mia.

Di voi non già, perchè chiamar vi fate,

Per nostra buona sorte.

Ministri di Natura e non di Morte.



Lorenzo Pignotti muore nell'Agosto del 1812 pertanto il testo è privo di diritto d’autore.


Per avere l'audio andate sul nostro canale Youtube  https://youtu.be/nwGhodpp_QI

giovedì 18 giugno 2020

I VESTITI NUOVI DELL'IMPERATORE di Hans Christian Anderson

I VESTITI NUOVI DELL'IMPERATORE

Molti anni or sono, viveva un Imperatore, il quale dava tanta importanza alla bellezza ed alla novità dei vestiti, che spendeva per adornarsi la maggior parte de' suoi danari. Non si curava de' suoi soldati, non di teatri o di scampagnate, se non in quanto gli servissero di pretesto a far mostra di qualche nuovo vestito. Per ogni ora della giornata, aveva una foggia speciale, e, come degli altri re si dice ordinariamente: è al consiglio, — di lui si diceva sempre: è nello spogliatoio.

Nella grande città dov'egli dimorava, la vita era molto gaia, ed ogni giorno ci capitavano forestieri. Una volta ci vennero anche due bricconi, i quali si spacciarono per tessitori e raccontarono di saper tessere la più bella stoffa che si potesse vedere al mondo. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con tale stoffa avevano questa mirabile proprietà: ad ogni uomo inetto al proprio officio o più stupido di quanto sia lecito comunemente, essi rimanevano invisibili.

«Ah, questi sì, sarebbero vestiti magnifici!» — pensò l'Imperatore: «Quando li avessi indosso, verrei subito a sapere quali sono nel mio regno gli uomini inetti all'officio che coprono; e saprei subito distinguere i savii dagli stolti! Sì, sì; bisogna che mi faccia tessere questa stoffa.» E antecipò intanto ai due bricconi una buona somma di danaro, perchè potessero incominciare il lavoro.

Essi prepararono due telai, e fecero mostra di mettersi a lavorare; ma sui telai non avevano nulla di nulla. Nel domandare, però, non si peritavano: domandavano sempre le sete più preziose e l'oro più fino. E la roba, se la mettevano in tasca, e continuavano a lavorare ai telai vuoti, magari sino a notte inoltrata.

«Mi piacerebbe sapere a che punto sono col lavoro,» pensava l'Imperatore; ma l'angustiava un poco il fatto che chiunque fosse troppo sciocco od impari al proprio officio non avrebbe potuto vedere la stoffa. Sapeva bene che, per conto suo, non c'era di che crucciarsi, ma, in ogni modo, stimò più opportuno di mandare prima un altro a vedere come andasse la faccenda. In città, tutti oramai sapevano la meravigliosa proprietà della stoffa, ed ognuno era curioso di vedere sino a che punto giungesse la stupidità o la buaggine del suo vicino.

«Manderò dai tessitori il mio vecchio onesto Ministro,» — pensò l'Imperatore: «Può giudicare il lavoro meglio di qualunque altro, perchè ha ingegno e nessuno più di lui è adatto alla propria carica.»

E il buon vecchio Ministro andò nella sala dove i due mariuoli facevano mostra di lavorare dinanzi ai telai vuoti. «Dio mi assista!» — fece il vecchio Ministro, e sgranò tanto d'occhi: «Io non vedo nulla di nulla!» Ma però si guardò bene dal dirlo.

I due bricconi lo pregarono di farsi più presso: non era bello il disegno? e i colori non erano bene assortiti? — e accennavano qua e là, entro al telaio vuoto. Il povero Ministro non si stancava di spalancar tanto d'occhi, ma nulla riusciva a vedere, poi che nulla c'era. «Mio Dio!» — pensava: «Ma ch'io sia proprio stupido? Non l'ho mai creduto, ma questo, già, di se stesso nessuno lo crede. E se non fossi adatto a coprire la mia carica? No, no; non è davvero il caso d'andar a raccontare che non vedo la stoffa.»

«E così? Non dice nulla?» — domandò uno degli uomini, che stava al telaio.

«Oh, perfetto, magnifico, proprio magnifico!» — disse il vecchio Ministro, e guardò a traverso agli occhiali: «Che disegno, che colori!... Sì, dirò a Sua Maestà che il lavoro mi piace immensamente!»

«Oh, questo ci fa davvero tanto piacere!» dissero entrambi i tessitori; e indicavano i colori per nome, e additavano i particolari del disegno. Il vecchio Ministro stava bene attento, per poter dire le stesse cose quando fosse tornato con l'Imperatore; e così fece.

Intanto, i due bricconi domandavano dell'altro danaro, dell'altra seta, dell'altr'oro, tutto per adoprarlo nel tessuto, naturalmente. E tutto mettevano invece nelle proprie tasche; e sul telaio non ne andava nemmeno un filo; ma continuavano come prima a lavorare al telaio vuoto.

L'Imperatore mandò poco dopo un altro ottimo officiale dello Stato, affinchè gli riferisse sull'andamento del lavoro, e se mancasse poco alla fine. Ed accadde anche a lui precisamente quello ch'era accaduto al Ministro: guardava e guardava, e, poi che sul telaio vuoto nulla c'era, nulla riusciva a vedere.

«Non è vero che è un bel genere di stoffa?» — domandavano tutti e due i mariuoli; e mostravano e spiegavano le bellezze della stoffa che non c'era.

«E pure, io non sono sciocco!» — pensava l'officiale: «E allora, gli è che non sono adatto al mio alto officio. Sarebbe strana! In ogni modo, bisogna almeno non lasciarlo scorgere!» Per ciò, vantò la stoffa che non vedeva, e si dichiarò pienamente sodisfatto tanto dei bellissimi colori quanto dell'eccellente disegno. «È proprio stupendo!» — disse poi all'Imperatore.

E in città non si faceva che parlare di questa magnifica stoffa.

Poi l'Imperatore stesso volle esaminare il tessuto sin che stava ancora sul telaio. Accompagnato da tutto un seguito di eletti cortigiani, tra i quali si trovavano anche i due vecchi valentuomini, che primi vi erano andati, si recò da quei furbi mariuoli. Essi lavoravano ora con più lena che mai, ma sempre senza trama e senza filo.

«Non è vero che è proprio stupenda?» — dissero tutti e due i probi officiali: «Si degni la Maestà Vostra di osservare questo ornato, questi colori!» — ed accennavano al telaio vuoto, sempre credendo, ben inteso, che gli altri potessero vedere la stoffa.

«Che affare è questo?» — pensò l'Imperatore «Io non ci vedo nulla! Questa è grossa! Fossi mai per caso un grullo? O non fossi buono a far l'Imperatore? Sarebbe il peggio che mi potesse capitare...» — «Oh, è bellissimo!» — disse ad alta voce: «È proprio di mio pieno gradimento.» Ed approvò sodisfatto, esaminando il telaio vuoto; perchè non voleva confessare di non vedervi nulla. Tutto il seguito, che lo accompagnava, aveva un bell'aguzzare gli occhi: non riusciva a vedervi più che non vi avessero veduto gli altri; e però tutti dissero con l'Imperatore «Bellissimo! Magnifico!» — e gli consigliarono di indossare per la prima volta il vestito fatto con quella splendida stoffa nel corteo di gala, ch'egli doveva guidare alla prossima festa. «Splendido, magnifico, meraviglioso!» — si ripetè di bocca in bocca; e tutti se ne rallegrarono cordialmente. L'Imperatore concedette ai due bricconi il permesso di portare all'occhiello il nastrino di cavaliere, col titolo di Tessitori della Casa Imperiale.

Tutta la notte, che precedeva il giorno della festa, i due bricconi rimasero alzati a lavorare, ed accesero più di sedici candele. Tutti poterono vedere quanto s'affaccendassero a terminare i nuovi vestiti dell'Imperatore. Fecero mostra di levare la stoffa dal telaio; tagliarono l'aria con certe grosse forbici, cucirono con l'ago senza gugliata, ed alla fine dissero: «Ecco, i vestiti sono pronti.»

L'Imperatore stesso venne allora, con i più compiti cavalieri, e i due bricconi levavano il braccio in aria, come se reggessero qualche cosa, e dicevano: «Ecco i calzoni! Ecco la giubba! Ecco il mantello!» — e così via. «Son leggeri come ragnateli! Sembra di non portar nulla sul corpo! Ma questo è il loro maggior pregio!»

«Già!» — fecero tutti i cortigiani; ma niente riuscirono a vedere, poi che niente c'era.

«Si degni la Maestà Vostra di deporre i vestiti che indossa,» — dissero i furfanti: «e noi misureremo alla Maestà Vostra i nuovi, dinanzi a questo grande specchio.»

L'Imperatore si spogliò, e quei bricconi fecero come se gli indossassero, capo per capo, i vestiti nuovi, che dicevano d'aver preparati; e lo strinsero ai fianchi, fingendo di agganciargli qualchecosa, che doveva figurare lo strascico; e l'Imperatore si volgeva e si girava dinanzi allo specchio.

«Come gli tornano bene! Divinamente!» — esclamarono tutti: «Che ornati! Che colori! È proprio un vestito magnifico!»

«Fuori è pronto il baldacchino di gala, di sotto al quale la Maestà Vostra guiderà la processione!» — annunziò il Gran Cerimoniere.

«Eccomi all'ordine!» disse l'Imperatore. «Non mi sta bene?» — E si volse di nuovo allo specchio, perchè voleva fare come se esaminasse minuziosamente il proprio abbigliamento.

I paggi, i quali dovevano reggere lo strascico, camminavano chini a terra, come se tenessero realmente in mano un lembo di stoffa. Camminavano con le mani tese all'aria dinanzi a sè, perchè non osavano lasciar vedere di non averci nulla.

E così l'Imperatore si mise alla testa del corteo solenne, sotto il superbo baldacchino; e tutta la gente ch'era nelle strade e alle finestre, esclamava: «Mio Dio, come son fuor del comune i nuovi vestiti dell'Imperatore! Che stupendo strascico porta alla veste! Come tutto l'insieme gli torna bene!» Nessuno voleva dar a divedere che nulla scorgeva; altrimenti non sarebbe stato atto al proprio impiego, o sarebbe stato troppo sciocco. Nessuno dei vestiti imperiali aveva mai suscitato tanta ammirazione.

«Ma non ha niente in dosso!» — gridò a un tratto un bambinetto.

«Signore Iddio! sentite la voce dell'innocenza!» — esclamò il padre: e l'uno venne susurrando all'altro quel che il piccino aveva detto.

«Non ha niente in dosso! C'è là un bambino piccino piccino, il quale dice che l'Imperatore non ha vestito in dosso!»

«Non ha niente in dosso!» — gridò alla fine tutto il popolo. L'Imperatore si rodeva, perchè anche a lui sembrava veramente che il popolo avesse ragione; ma pensava: «Qui non c'è scampo! Qui ne va del decoro della processione, se non si rimane imperterriti!» E prese un'andatura ancora più maestosa; ed i paggi continuarono a camminare chini, reggendo lo strascico che non c'era.




Hans Christian Anderson è deceduto a Copenhagen il 4 agosto 1875 pertanto il teso è privo di diritti d’autore.


lunedì 18 maggio 2020

I DUE PASSERINI di Lorenzo Pignotti

Pe’ verdi rami scherzano

Con lascivetti voli.

E d'amor note cantano,

I flebili usignoli.

 

Quivi il fanello stridulo,

La tortora qui geme.

Qui tutta par l'aligera

Famiglia accolta insieme.

 

Di questa stanza rustica

Tra l’ ombre verdeggianti

Felici si vivevano

Due Passerini amanti ;

 

E d'un amor scambievole

Tant'erano infiammati,

Che mai non si mirarono,

Se non accompagnati.

 

Parea, che un'istess' anima

Con artifizio ignoto,

In un tempo medesimo

Desse a due corpi moto.

 

Per l’aria insiem volavano

L’ uno dell’ altra appresso,

Indi si riposavano

Sul ramoscello istesso.

 

Insiem vedeansi pendere

Sull ondeggiante e bionda

Spica, ed il rostro immergere

Insiem nella fresc’onda.

 

Indi con note tenere,

E armonici concenti

Parea. che ragionassero

In amorosi accenti.

 

Entro del seno concavo

D’ un' alta querce antica

Prendeano insiem ricovero

Poi nella notte amica.

 

E benché sciolti e liberi

In mezzo alla campagna

Ella altro amante, ei scegliere

Potesse altra compagna,

 

Egli fu sempre stabile

A’primi affetti sui,

Ella con fé recìproca

Non seppe amar che lui.

 

Ma della sorte prospera

Sempre è il favor fallace;

Sul piè mal fermo e instabile

Stassi il Piacer fugace.

 

Un di, che insiem gioivano

Fra gli amorosi affetti,

Di cacciatore barbaro

Restar fra i lacci stretti.

 

Entrambi allor si chiudono

In gabbia angusta, e insieme

Forzati sono a vivere

In fino all’ore estreme.

 

Ma oh strana ed incredibile

Mutazion d'affetti!

Ciò che bramaron liberi,

Aborrono costretti.

 

Vivere insiem i ramarono

Fino all'estremo lato,

Or che per forza il debbono.

Ciascuno è disgustato.

 

A contenergli è piccola

Ora una gabbia sola,

Accanto più non posano,

Chi qua, chi là sen vola.

 

Ognora si querelano,

Già l’odio è dichiarato,

Già già di sangue tingono

Rabbiosi il rostro irato.

 

Conviene alfìn dividerli

In due gabbie distinti

O da furor scambievole

Cadon entrambi estinti.

 

Udisti la mia favola ?

In questa è al vivo espresso

Il maritale vincolo,

Com’ è di moda adesso :

 

Vincolo non da simile

Indole ben formato,

Ma da un capriccio fervido,

Che muore appena nato.



Tratto da

FAVOLE DI LORENZO PIGNOTTI

scelte ad uso della gioventù

dal Sac. Prof.

CELESTINO DURANDO

EDIZIONE QUARTA

TORINO, 1890

TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA

 

Lorenzo Pignotti muore nell'Agosto del 1812 pertanto il testo è privo di diritto d’autore.